Città del Vaticano – Questa mattina, nell’Aula Paolo VI, Papa Leone XIV ha ricevuto in udienza i partecipanti al Giubileo della Diplomazia Italiana. Il Pontefice ha legato il senso dell’incontro al pellegrinaggio giubilare, ricordando che il passaggio attraverso la Porta Santa “qualifica questo nostro incontro” e consente di condividere una speranza che non è evasione, ma responsabilità: la speranza, ha spiegato, “non riguarda un confuso desiderio di cose incerte, ma è il nome che la volontà assume quando tende fermamente al bene e alla giustizia che sente mancare”.
La cornice giubilare: la speranza come categoria operativa
Leone XIV ha impostato il discorso partendo dal significato del Giubileo per chi lavora nelle relazioni internazionali.Non un appuntamento rituale, ma un richiamo a ciò che sostiene la pazienza del confronto quando l’intesa appare lontana. “In diplomazia, solo chi spera davvero cerca e sostiene sempre il dialogo fra le parti”, ha detto, collegando la speranza alla capacità di “confidare nella comprensione reciproca anche davanti a difficoltà e tensioni”. Il Papa ha insistito su un passaggio decisivo: la speranza non è ottimismo generico, ma una disposizione concreta che spinge a cercare “i modi e le parole migliori per raggiungere l’intesa”.
Quando i gesti non sono solo formalità
Il Pontefice ha poi richiamato il valore umano – prima ancora che giuridico – dei patti e dei trattati. La diplomazia autentica, ha detto, non può ridursi a procedura o a tecnica, perché l’accordo nasce da una prossimità reale. È per questo che ha definito “indicativo” il fatto che i trattati siano “suggellati da un accordo”, spiegando che quella vicinanza “del cuore – ad cor – esprime la sincerità di gesti, come una firma o una stretta di mano, altrimenti ridotti a formalità procedurali”. Qui la distinzione è netta: da una parte la missione diplomatica come servizio al bene comune, dall’altra le “derive” del “calcolo interessato a tornaconti di parte” o dell’equilibrio tra rivali che, pur negoziando, “nascondono le rispettive distanze”.
L’esempio di Cristo e la grammatica del dialogo
Per resistere a queste derive, Leone XIV ha posto come riferimento l’esempio di Gesù, presentato non in forma devozionale ma come chiave di lettura del dialogo stesso: la sua testimonianza di riconciliazione e di pace, ha affermato, “brilla come speranza per tutti i popoli”. Il Pontefice ha descritto la dinamica del dialogo come riflesso dell’essere umano creato a immagine di Dio: “tutti noi, fatti a immagine di Dio, sperimentiamo nel dialogo, ascoltando e parlando, le relazioni fondamentali della nostra esistenza”. In questa prospettiva, ascolto e parola diventano strumenti antropologici essenziali, prima ancora che diplomatici.
La lingua “madre”, le parole come patrimonio comune e la sfida multiculturale
Un passaggio centrale del discorso ha riguardato la dimensione culturale del linguaggio. Leone XIV ha ricordato che “chiamiamo madre la nostra lingua nativa”, perché esprime la cultura della patria e “unisce il popolo come una famiglia”. Nella lingua, ha osservato, ogni Nazione manifesta “una specifica comprensione del mondo”, dal sistema di valori ai gesti quotidiani. Da qui l’attenzione ai contesti multietnici: “diventa allora indispensabile aver cura del dialogo, favorendo la comprensione reciproca e interculturale” come segno concreto di “accoglienza, di integrazione, di fraternità”. Il Papa ha esteso lo stesso principio alla scena internazionale, indicando che questo stile può generare cooperazione e pace “a patto che perseveriamo a educare il nostro modo di parlare”.
“Essere di parola”: coerenza, fedeltà e credibilità pubblica
La riflessione è diventata più incisiva quando Leone XIV ha legato linguaggio e moralità pubblica. “Solo quando una persona è onesta, infatti, diciamo che è ‘di parola’”, ha detto, perché mantenere la parola è segno di “costanza e fedeltà, senza voltafaccia”. E la coerenza non è un attributo privato: “una persona è coerente quando fa quello che dice”, poiché “la sua parola è il buon pegno che dà a chi la ascolta”. Il Pontefice ha così trasformato un’espressione comune (“di parola”) in un criterio di responsabilità, con un sottinteso evidente per la vita diplomatica: senza credibilità del linguaggio, nessuna architettura di accordi regge nel tempo.
L’“Effatà” del Battesimo e l’educazione all’ascolto
Nel passaggio più esplicitamente cristiano, Leone XIV ha ricordato che “il cristiano è sempre uomo della Parola”, prima perché ascolta Dio e risponde nella preghiera. Ha poi richiamato un gesto battesimale: “Quando siamo stati battezzati, è stato tracciato sulle nostre orecchie il segno della Croce, dicendo: ‘Effatà’, cioè ‘Apriti’”. In quel segno, ha spiegato, viene benedetto il senso attraverso cui riceviamo le prime parole di affetto e gli elementi culturali che sostengono la vita familiare e sociale. Da qui la conclusione pratica: “come i sensi e il corpo, così anche il linguaggio va dunque educato”, perché essere cristiani e cittadini onesti significa “condividere un vocabolario capace di dire le cose come stanno, senza doppiezza”.
Il contrario del dialogo non è il silenzio: è l’offesa
Guardando all’attualità internazionale, Leone XIV ha offerto una definizione che suona come un criterio per la comunicazione pubblica e politica. “In un contesto internazionale ferito da prevaricazioni e conflitti”, ha detto, “il contrario del dialogo non è il silenzio, ma l’offesa”. Il silenzio, infatti, può “aprire all’ascolto” e accogliere l’altro; l’offesa invece è “un’aggressione verbale”, una “guerra di parole” alimentata da “menzogne, propaganda e ipocrisia”. È un passaggio che sposta il tema dal tavolo negoziale al clima culturale: per il Papa, la pace è incompatibile con l’avvelenamento sistematico del linguaggio.
“Disarmare” i discorsi: poche parole, quelle giuste
Da questa diagnosi deriva l’appello operativo: “Impegniamoci con speranza a disarmare proclami e discorsi”, curandone “non solo la bellezza e la precisione, ma anzitutto l’onestà e la prudenza”. Leone XIV ha insistito su un’etica della misura: “Chi sa cosa dire, non ha bisogno di molte parole, ma solo di quelle giuste”. E ha indicato una sorta di “lessico” positivo: parole “che fanno bene”, “che costruiscono intesa”, “che riparano i torti e perdonano le offese”. Il nesso finale è stato esplicito: “Chi si stanca di dialogare, si stanca di sperare la pace”.
Il richiamo a Paolo VI all’ONU e la benedizione conclusiva
In chiusura, Leone XIV ha rievocato l’appello di san Paolo VI alle Nazioni Unite di sessant’anni fa, citandone il cuore: “non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!”. Il Pontefice ha definito la pace “il dovere” che unisce l’umanità e l’ha collegata all’intera vicenda di Cristo, “dalla notte di Natale” fino alla Pasqua. Ai presenti ha quindi consegnato un mandato preciso: essere “uomini e donne di dialogo”, capaci di leggere i segni dei tempi “secondo quel codice dell’umanesimo cristiano” che, ha affermato, è alla base della cultura italiana ed europea.
d.A.C.
Silere non possum